venerdì 28 marzo 2014

Si vive meglio nelle grandi città o nei piccoli comuni? luoghi comuni e prospettive

Nel cosiddetto Bel Paese, ci sono migliori condizioni di benessere nelle grandi città o nei piccoli comuni? C'è innanzitutto da capire cosa si intende per benessere.



Se provo ad interrogare il linguaggio comune, scopro che per benessere si intendono due cose distinte e forse niente affatto assimilabili. Nel primo caso mi tornano alla mente espressioni come “benestante” o “benessere economico”. Si fa evidentemente riferimento ad una condizione economica vantaggiosa, con buoni profitti e altrettanto buona capacità d'acquisto. Nel secondo caso, invece, mi vengono in mente espressioni “di benessere” che qualificano l'“essere” come “buono”. Si aprono considerazioni esistenziali e psicologiche ampie che non posso approfondire in questa sede. Ma brevemente si può dire che il “benessere” esistenziale è lo stare bene al mondo, ossia il vivere “bene” la propria esistenza, avendo un buon rapporto con se stessi e la propria natura e caratteristiche, e una buona relazione con gli altri del proprio contesto.
Vorrei dunque tentare di rispondere alla prima domanda di questo breve articolo prendendo in considerazione queste due forme di benessere e magari, tentare di capire se sono davvero correlate.
Guardando le statistiche Istat sulla qualità della vita pubblicate nel 2009 si scopre che mediamente nelle grandi città si guadagna di più, si spende di più in termini di consumi e ci sono maggiori opportunità di lavoro. Sembrerebbe dunque che la città offra condizioni di “benessere economico” migliori rispetto ai piccoli comuni. Osservando con maggiore minuzia scopriamo però che le città sono mediamente più care dei piccoli paesi, soprattutto per ciò che riguarda i tasti dolenti dell'acquisto, affitto e gestione della casa. Se dunque riparametriamo i dati e chiediamo alle persone, come ha fatto l'Istat, di dirci “in quali condizioni economiche riescono ad arrivare alla fine del mese?”, ci accorgiamo che nelle città più del 40 % risponde di arrivarci “con difficoltà” e che la stessa risposta, nei paesi la dà “soltanto” il 30 % delle persone.
Dal punto di vista del benessere esistenziale, consultando le statistiche ufficiali, che seppur non danno conto all'esperienza soggettiva raccontano di alcuni parametri interessanti in tal senso, scopriamo che nelle piccole città ambiente, sicurezza, rumori, siano mediamente percepiti come migliori rispetto alle grandi città. Le grandi città sono dunque percepite dagli italiani come più inquinate, maggiormente rumorose e meno sicure che le piccole città.
Rispetto alla nostra discussione, un altro dato interessante riguarda invece la percezione della salute, dell'uso del tempo e della qualità dei rapporti sociali. Anche qui il dato sembra favorire i piccoli comuni italiani rispetto alle grandi realtà. I primi sono infatti luoghi in cui la salute è migliore, c'è maggiore tempo personale a disposizione e in cui i rapporti sociali sono più semplici e profondi.
Sembra dunque che nelle piccole città si viva meglio rispetto alle grandi città. Come mai allora, molte persone decidono di vivere nelle grandi città?
Io credo che si possa rispondere consultando i miti che avvolgono le grandi città: migliori condizioni economiche, maggiori opportunità di crescita personale e culturale, migliori offerte formative e maggiori divertimenti. Le città allora diventano luoghi dove nell'immaginario collettivo ci sono maggiori svaghi e opportunità culturali, luoghi in cui la mente possa nutrirsi di esperienze che possano accrescere le condizioni personali di benessere (nelle due accezioni in questo caso). Le statistiche dunque sfatano questi miti, allora deve esserci qualche altra ragione. Una mi sembra la seguente: la vita in città offre sensazioni di maggiori gradi di libertà e autonomia. Andiamo con ordine. I piccoli paesi offrono maggiori contatti in termini di relazioni sociali ma, e questa è anche la mia esperienza personale, l'altro lato della medaglia è un senso di controllo sociale che può essere percepito come limitante l'autonomia, la creatività e lo spirito di iniziativa personale. Nei piccoli comuni c'è probabilmente maggiore “calore” sociale, ma anche minori movimenti nella direzione del cambiamento e del nuovo.
Ma, probabilmente, ancora, c'è da sfatare dei luoghi comuni sulle relazioni che si possono instaurare nelle grandi città. Direi che se è vero che nelle grandi città sia più difficile instaurare nuove relazioni rispetto ai piccoli paesi, non è vero che in città i rapporti siano necessariamente meno profondi, scarsamente dotati di affetto o meno “protettivi”. La differenza, a mio avviso, è che nella città le relazioni significative sono diffuse nello spazio e nel tempo. La maggior parte dei contatti sociali nelle piccole città è con gli “amici di sempre”, nelle grandi città invece i contatti più frequenti del quotidiano avvengono con perfetti o quasi perfetti sconosciuti. Dunque penso che nelle grandi città i rapporti caldi esistano, solo che sono diluiti nel tempo e nello spazio.
Le relazioni interpersonali possono essere rappresentate come reti sociali, e se nei piccoli comuni le maglie sono fitte, nella grandi città le maglie, seguendo il mio ragionamento, sono più larghe. Le reti, come si sa, offrono sostegno e protezione (si pensi a quella magnifica metafora della società che è il circo, ed in particolare ai trampolieri che cadono dall'alto), ma sono anche gli strumenti per ingabbiare, intrappolare e impedire il cammin

o verso la libertà.
Il benessere è un'esperienza soggettiva e rispondere se sia più facile vivere tale esperienza nelle grandi città o nelle piccole città, non è facile. Ma forse una chiave di lettura può essere offerta da quanto come individuo si desideri vivere in contesti con reti a maglie fitte, che offrono garanzie di supporto, sicurezza e stabilità, ma anche controllo e cambiamenti più lenti, o con reti a maglie larghe, che grazie ad un minore controllo sociale possono offrire maggiori possibilità in termini di crescita, iniziativa, creatività, certo, a scapito di rapporti caldi più frequenti.

All'individuo l'ardua sentenza.

lunedì 24 marzo 2014

Le antenne della tristezza e la società degli antidolorifici




Tristezza
per favore va via
tanto tu in casa mia
no, non entrerai mai

....cantava Ornella Vanoni un po' di tempo fa. Cacciare via la tristezza lontano da noi è una tentazione facile che a volte cattura anche chi lavora nelle cosiddette professioni d'aiuto. Vivere felici e contenti, sempre sorridenti e positivi è qualcosa che in vari modi ci viene suggerito dai messaggi pubblicitari, dai saggi consigli di chi ne ha passate tante, da una morale vagamente ottimista che non sopporta troppo il peso dell'anima umana. 
La tristezza è biologicamente fondamentale. E' l'altra faccia della medaglia dell'amore. Quando c'è tristezza qualcosa nell'amore si sta allontanando. La tristezza è la misura della distanza da qualcosa che amiamo.
Con un mio paziente qualche tempo fa abbiamo fatto questa bella metafora: la tristezza è come un'antenna. Se ce l'hai piazzata sul tetto cogli le trasmissioni tristi, ma è con la stessa antenna che puoi cogliere l'amore, la gioia, la soddisfazione. Togliere l'antenna, come la società degli antidolorifici ci propone (provate a guardare in tv o su internet quante pubblicità ci sono su farmaci che fanno passare il dolore) è un tentativo non solo inutile, perchè tanto le emozioni che fai uscire dalla finestra rientrano dai sotterranei dell'anima, ma anche il modo migliore per allontanarsi da una vita piena di soddisfazione e amore. Non sto facendo un'apologia del dolore in salsa  melodrammatica, per la quale soffrire è bello. No, parlo di come stare a contatto con la tristezza apre le porte a se stessi e all'incontro pieno con l'altro, la strada possibile se si "vuole vivere e cantare". Altrimenti è facciata, altrimenti sono sorrisi finti, altrimenti è illusione di plastica. 

Marco Mazza
Psicologo Psicoterapeuta Gestalt