giovedì 9 ottobre 2014

Omofobia e pregiudizio: sentinelle appiedate e l'amore per i figlioli.

Ultimamente ho visto diversi articoli e video di queste anime "caste"  che si fanno chiamare sentinelle appiedate che vegliano sui valori di questa bella società patriarcale e che vogliono difendere l'umanità dalle minacce  della legge Scalfarotto alla famigghia!  Mi sono letto la proposta di legge Scalfarotto e ho fatto queste considerazioni. 

Mi pare che ci sia un po' di confusione, direi dettata da stereotipi: 

1. la legge Scalfarotto non introduce il matrimonio omosessuale. Direi purtroppo perché non vedo quale sia il problema, o, per chi sia il problema. Forse per chi ha paura delle "dif
ferenze"? 
2) la legge Scalfarotto non introduce la possibilità di adozione per due omosessuali. Direi purtroppo, perché le ricerche psicologiche in merito non hanno documentato nessun problema nei figli. Aggiungerei che il tema degli archetipi maschile e femminile di cui verrebbero privati i figli che nascono in coppie omosessuali, è trattato con approssimazione. Nella teoria junghiana, gli archetipi maschili e femminili, non corrispondono ai ruoli socialmente diffusi (che in molte società anche occidentali stanno comunque cambiando) di uomo e donna. Gli archetipi femminili e maschili sono immagini dell'inconscio collettivo dell'umanità e per questo appartengono e sono comuni a tutti gli individui a prescindere dal loro genere biologico. 
3. Accostazione di omosessualità a pedofilia. Qualcuno sostiene che una delle conseguenze della legge  sarebbe quella di facilitare l'adozione da parte di omosessuali pedofili. In ogni caso, chi può dire con certezza che una rassicurante coppia formata da uomo e donna non sia una coppia di pedofili? ah già, solo gli omosessuali sono pedofili. 
4. la proposta di legge Scalfarotto, aggiunge il tema dell'identità sessuale ai reati di discriminazione contenuti nell'articolo 3 della legge Mancino del '75. La stessa proposta di legge Scalfarotto modifica le pene del reato aumentandone in alcuni casi gli anni di reclusione. Ovviamente questo vale per tutti i reati di discriminazione e non solo per quelli di carattere omofobico o transfobico.
5. La proposta di legge Scalfarotto specifica che il campo di applicazione della stessa non riguarda le opinioni, bensì i reati di discriminazione così come già stabilito dalla legge del '75 di Mancino.
6. Non sono nè massone nè omosessuale, (qualcuno sostiene che questa legge sia stata dettata da gruppi massonici omosessuali) ma per questo non ho nessuna difficoltà a sostenere una legge che vuole difendere altri esseri umani dall'ABOMINIO DELLA VIOLENZA cui sovente vengono sottoposti da parte di eterosessuali, figli di eterosessuali che nascono in famiglie che si dicono "normali" e "naturali".


Aggiungo, ma la mia è solo un'opinione lungi dal volerla considerare un fatto oggettivo, che non è la famiglia di per sè a garantire ai figlioli di venir su sani e pieni di voglia di vivere ma solo l'amore. E quello non ha confini identitari!
Parafrasando la fotografia, l'unica famiglia è quella felice con amore!

mercoledì 24 settembre 2014

Paveo, ergo sum!

Ho paura, dunque sono!














La paura è un'emozione fondamentale per la sopravvivenza. Dal punto di vista adattivo forse la più importante in quanto ha la funzione di segnalare pericoli e di preparare l'organismo ad un'efficace risposta. Come è noto tre sono le risposte che l'organismo organizza in reazione ad un evento o ad un soggetto pericoloso: fuga, attacco, immobilizzazione. La fuga ci allontana dal pericolo, l'attacco ci fa lottare col pericolo, e l'immobilizzazione è un tentativo estremo di mimetizzarsi e rendersi immune agli attacchi di un predatore. Certi animali utilizzano il freezing per simulare la morte sperando che un predatore preferisca animali vivi a quelli morti (a volte succede). 
Non voglio entrare in modo approfondito nel merito dei meccanismi fisiologici della paura, voglio parlare di una particolare scelta di vita: IL VIVERE CON PAURA. In questo caso la paura, da emozione che protegge e che serve a indicare pericoli diventa un sistema che si auto alimenta di se stessa andando alla ricerca di pericoli che sostengono la sua tesi: il mondo è pericoloso ed è necessario proteggersi. La paura diventa quasi un tratto identitario del mio modo di essere e di relazionarmi con il mondo. E si sa della nostra identità ci affezioniamo e tendiamo a proteggerla. 
A pensarci bene la paura è l'emozione di base di questo stile di identità ma il meccanismo psicologico messo in atto è quello del controllo. Controllare è utile per proteggersi, ma controllare può diventare un'ossessione al di là di pericoli reali. Controllare, serve in questo caso, a difendersi dai pericoli potenziali. Ovviamente i pericoli potenziali sono, scusate il gioco di parole, potenzialmente infiniti. C'è sempre qualcosa da temere. Naranjo chiama questo stile di vita, tipico di un particolare carattere di pensiero, codardia, ovvero l'atteggiamento del mettersi in coda, per ultimo, non davanti, nè in mezzo a quello che c'è da affrontare, ma giù in fondo sperando di non venir toccati. E' chiaro che se in guerra la codardia può salvare la vita, nella vita la codardia impedisce la vita. Se la vita è piena di pericoli potenziali, questa non è un dono da vivere bensì un'insieme di cose mostruose da controllare nella vana speranza che più posso controllare più sono al sicuro.  
La codardia fa uso della più grande qualità umana che è la creatività per l' invenzione di sistemi difensivi apparentemente ragionevoli che servono a progettare la difesa dal pericolo nell'illusoria idea del controllo (illusoria per il semplice fatto che i meccanismi che regolano l'universo sono talmente tanti e talmente sconosciuti che quelli che possiamo controllare si contano sulle dita delle mani). 
Io credo che paradossalmente il controllo estremo sia un mezzo utile a non sentire la paura. La paura se la si sente e la si accoglie può essere fonte di saggezza e ispirare scelte funzionali. Se si evita di sentirla fino in fondo, man mano aumenta di spessore fino a rendere incapaci di distinguere ciò che è reale da ciò che è immaginato (tipicamente i paranoici proiettano all'esterno, su un nemico, le proprie paure interne). 

I quattro sistemi più frequentemente utilizzati ed efficaci per alimentare il controllo sono la fede cieca, la guerra paranoica, la medicina ipocondriaca, il ritiro dal mondo. 
La fede cieca è un atteggiamento per il quale tutto dipende dal volere di entità (divine o no) superiori. E' l'atteggiamento religioso di chi spera in un padre che guarda tutto e salva quelli buoni. Affidare tutto a dio in modo cieco, ovvero senza nemmeno chiedersi troppo chi è dio, (ovviamente la spiritualità praticata con consapevolezza è tutt'altra cosa) può talvolta essere un modo per rinunciare a scegliere e ad attraversare i pericoli dell'esistenza. Credo che questo tipo di fede sia un buon sistema di anestesia dalla paura.   

La guerra paranoica, forse è l'atteggiamento con cui più o meno tutti facciamo i conti. E' il vedere nemici negli altri. L'altro ti vuole fregare, fidarsi è bene non fidarsi è meglio. Per fare un'esperienza di guerra paranoica basta farsi un giro in macchina a Roma a qualsiasi orario. Ovviamente anche questo è un modo per interrompere contatto con la paura. Anziché guardarsi dentro e vedere di cosa si ha paura e fare scelte consapevoli e responsabili, si schizza tutto all'esterno contro pericoli che si possono maneggiare e abbattere! 

La medicina ipocondriaca è l'atteggiamento di chi vuole controllare il proprio corpo e le proprie malattie in un modo ossessivo. E' l'ossessione per la salute che fa andare a caccia di malattie. Ovviamente farsi vedere da un medico fa bene. Ma se si ascolta il proprio corpo allora si può andare dal medico perché c'è qualcosa del proprio organismo che ci guida. Qui credo faccia la differenza la misura del controllo che da funzionale diventa ossessiva caccia alle streghe per la quale il proprio corpo assume i connotati del campo di battaglia in cui avvengono le malattie da sconfiggere piuttosto che il sacro tempio del nostro esistere. 
Il ritiro dal mondo è l'atteggiamento di chi non vota, di chi non vede mai nessuno, di chi si isola, di chi rinuncia alle relazioni perché tanto non serve a nulla. E' meglio starsene per gli affari propri perché tanto qualunque cosa si faccia si prendono pesci in faccia dalla vita. Ritiro dal mondo è anche rinchiudersi nella routine delle proprie certezze anche se queste ormai hanno un odore di muffa e rendono la stessa vita un'esperienza vuota, noiosa e dolorosa. Ma questo è sempre meglio della paura. 

Credo che in comune questi quattro sistemi abbiano una cosa cioè che il problema non sia tanto la gestione dei pericoli, piuttosto la gestione della paura. Cioè abbiamo paura di vedere in faccia la paura piuttosto che di affrontare i pericoli. E' paradossale ma comprensibile. 
Ho spulciato l'etimologia e paura ha a che fare con pavus, che è anche la radice di pavimento. Paura significa cadere di faccia sul pavimento. E mica è facile se non si ha fiducia che ho le risorse e le qualità per difendermi mentre cado. Se solo però, durante la caduta, ascoltassimo quell'attimo in cui siamo in volo, chissà quante quali la paura avrebbe da dirci. Chissà magari durante il volo potrebbe farci indossare ali di curiosità per vivere la vita in modo aperto.  

se ti interessa fare un viaggio sui temi della paura e della fiducia, partecipa a questo worksho: http://www.marcomazza.net/workshop-con-tatto.html

martedì 1 aprile 2014

In che mondo viviamo...bassezze umane e lievito naturale



In che mondo viviamo! è un'affermazione che spesso mi capita di sentire e di pronunciare ultimamente.
Viviamo in un mondo fatto di un sacco di cose brutte e basta farsi un giro o guardare fuori dalla finestra o ancora meglio, stare attenti a quello che succede in casa propria per avere la percezione che questo mondo è lungi dall'essere perfetto e buono ma pieno, al contrario, di cose "sbagliate". E' facile che saltino all'occhio le bassezze, le schifezze, le cattiverie, gli egoismi della nostra razza. Non c'è bisogno di commentare troppo questo, si tratta in fin dei conti di cose ovvie. Vorrei invece parlarvi della creatività del primo fornaio. Quello che ha inventato la lievitazione naturale. Qui siamo nell'ambito delle leggende e vorrei condividerne una che recentemente mi è stata raccontata in seduta (sono molto sensibile al tema del pane perché una parte della mia famiglia fa il pane da diversi decenni).

Un fornaio distratto e un po' superficiale, finita la sua giornata di lavoro, si accorge di aver dimenticato di infornare un parte del pane che aveva impastato. Ma ormai il forno è spento e non sa cosa farne. E' stanco e preso da pigrizia, decide di far finta di niente e di lasciare quell'ammasso di acqua e farina nel suo contenitore. Non ha nessuna voglia di occuparsi ora di quello scarto. Il giorno dopo si accorge, con grande sorpresa, che l'impasto è raddoppiato di volume e decide di infornarlo...

Senza quelli che appaiono come limiti umani, senza la superficialità e le bassezze di questo primo fornaio, non avremmo scoperto la lievitazione naturale.
Viviamo in un mondo in cui c'è spazio pure per i limiti e le schifezze umane. Col tempo e con la giusta dose di creatività (ovvero la capacità tipicamente umana di muoversi tra i limiti e di vedere e inventare il nuovo) e di respons-abilità (non colpa! vedi altro articolo nel blog) quelle che appaiono come scarti o elementi da cui depurarsi, possono diventare risorse e possibilità.
Guardare un po' meglio ciò che c'è, piuttosto che ciò che dovrebbe essere, sospendere le aspettative idealistiche di perfezione, permettono di ospitare parti di noi che possono sorprenderci. La sorpresa è la polarità opposta della paura: ci consente di aprire gli occhi verso nuove scoperte (che poi è proprio ciò che rende grande la razza umana) e magari di renderci più probabile la possibilità di crearci un mondo come lo vogliamo.
Porsi di fronte a se stessi e agli altri senza giudizio ma con sorpresa è essenziale anche per questo: per evitare di buttar via troppo in fretta scarti che possono col tempo lievitare e diventare preziosi. 




venerdì 28 marzo 2014

Si vive meglio nelle grandi città o nei piccoli comuni? luoghi comuni e prospettive

Nel cosiddetto Bel Paese, ci sono migliori condizioni di benessere nelle grandi città o nei piccoli comuni? C'è innanzitutto da capire cosa si intende per benessere.



Se provo ad interrogare il linguaggio comune, scopro che per benessere si intendono due cose distinte e forse niente affatto assimilabili. Nel primo caso mi tornano alla mente espressioni come “benestante” o “benessere economico”. Si fa evidentemente riferimento ad una condizione economica vantaggiosa, con buoni profitti e altrettanto buona capacità d'acquisto. Nel secondo caso, invece, mi vengono in mente espressioni “di benessere” che qualificano l'“essere” come “buono”. Si aprono considerazioni esistenziali e psicologiche ampie che non posso approfondire in questa sede. Ma brevemente si può dire che il “benessere” esistenziale è lo stare bene al mondo, ossia il vivere “bene” la propria esistenza, avendo un buon rapporto con se stessi e la propria natura e caratteristiche, e una buona relazione con gli altri del proprio contesto.
Vorrei dunque tentare di rispondere alla prima domanda di questo breve articolo prendendo in considerazione queste due forme di benessere e magari, tentare di capire se sono davvero correlate.
Guardando le statistiche Istat sulla qualità della vita pubblicate nel 2009 si scopre che mediamente nelle grandi città si guadagna di più, si spende di più in termini di consumi e ci sono maggiori opportunità di lavoro. Sembrerebbe dunque che la città offra condizioni di “benessere economico” migliori rispetto ai piccoli comuni. Osservando con maggiore minuzia scopriamo però che le città sono mediamente più care dei piccoli paesi, soprattutto per ciò che riguarda i tasti dolenti dell'acquisto, affitto e gestione della casa. Se dunque riparametriamo i dati e chiediamo alle persone, come ha fatto l'Istat, di dirci “in quali condizioni economiche riescono ad arrivare alla fine del mese?”, ci accorgiamo che nelle città più del 40 % risponde di arrivarci “con difficoltà” e che la stessa risposta, nei paesi la dà “soltanto” il 30 % delle persone.
Dal punto di vista del benessere esistenziale, consultando le statistiche ufficiali, che seppur non danno conto all'esperienza soggettiva raccontano di alcuni parametri interessanti in tal senso, scopriamo che nelle piccole città ambiente, sicurezza, rumori, siano mediamente percepiti come migliori rispetto alle grandi città. Le grandi città sono dunque percepite dagli italiani come più inquinate, maggiormente rumorose e meno sicure che le piccole città.
Rispetto alla nostra discussione, un altro dato interessante riguarda invece la percezione della salute, dell'uso del tempo e della qualità dei rapporti sociali. Anche qui il dato sembra favorire i piccoli comuni italiani rispetto alle grandi realtà. I primi sono infatti luoghi in cui la salute è migliore, c'è maggiore tempo personale a disposizione e in cui i rapporti sociali sono più semplici e profondi.
Sembra dunque che nelle piccole città si viva meglio rispetto alle grandi città. Come mai allora, molte persone decidono di vivere nelle grandi città?
Io credo che si possa rispondere consultando i miti che avvolgono le grandi città: migliori condizioni economiche, maggiori opportunità di crescita personale e culturale, migliori offerte formative e maggiori divertimenti. Le città allora diventano luoghi dove nell'immaginario collettivo ci sono maggiori svaghi e opportunità culturali, luoghi in cui la mente possa nutrirsi di esperienze che possano accrescere le condizioni personali di benessere (nelle due accezioni in questo caso). Le statistiche dunque sfatano questi miti, allora deve esserci qualche altra ragione. Una mi sembra la seguente: la vita in città offre sensazioni di maggiori gradi di libertà e autonomia. Andiamo con ordine. I piccoli paesi offrono maggiori contatti in termini di relazioni sociali ma, e questa è anche la mia esperienza personale, l'altro lato della medaglia è un senso di controllo sociale che può essere percepito come limitante l'autonomia, la creatività e lo spirito di iniziativa personale. Nei piccoli comuni c'è probabilmente maggiore “calore” sociale, ma anche minori movimenti nella direzione del cambiamento e del nuovo.
Ma, probabilmente, ancora, c'è da sfatare dei luoghi comuni sulle relazioni che si possono instaurare nelle grandi città. Direi che se è vero che nelle grandi città sia più difficile instaurare nuove relazioni rispetto ai piccoli paesi, non è vero che in città i rapporti siano necessariamente meno profondi, scarsamente dotati di affetto o meno “protettivi”. La differenza, a mio avviso, è che nella città le relazioni significative sono diffuse nello spazio e nel tempo. La maggior parte dei contatti sociali nelle piccole città è con gli “amici di sempre”, nelle grandi città invece i contatti più frequenti del quotidiano avvengono con perfetti o quasi perfetti sconosciuti. Dunque penso che nelle grandi città i rapporti caldi esistano, solo che sono diluiti nel tempo e nello spazio.
Le relazioni interpersonali possono essere rappresentate come reti sociali, e se nei piccoli comuni le maglie sono fitte, nella grandi città le maglie, seguendo il mio ragionamento, sono più larghe. Le reti, come si sa, offrono sostegno e protezione (si pensi a quella magnifica metafora della società che è il circo, ed in particolare ai trampolieri che cadono dall'alto), ma sono anche gli strumenti per ingabbiare, intrappolare e impedire il cammin

o verso la libertà.
Il benessere è un'esperienza soggettiva e rispondere se sia più facile vivere tale esperienza nelle grandi città o nelle piccole città, non è facile. Ma forse una chiave di lettura può essere offerta da quanto come individuo si desideri vivere in contesti con reti a maglie fitte, che offrono garanzie di supporto, sicurezza e stabilità, ma anche controllo e cambiamenti più lenti, o con reti a maglie larghe, che grazie ad un minore controllo sociale possono offrire maggiori possibilità in termini di crescita, iniziativa, creatività, certo, a scapito di rapporti caldi più frequenti.

All'individuo l'ardua sentenza.

lunedì 24 marzo 2014

Le antenne della tristezza e la società degli antidolorifici




Tristezza
per favore va via
tanto tu in casa mia
no, non entrerai mai

....cantava Ornella Vanoni un po' di tempo fa. Cacciare via la tristezza lontano da noi è una tentazione facile che a volte cattura anche chi lavora nelle cosiddette professioni d'aiuto. Vivere felici e contenti, sempre sorridenti e positivi è qualcosa che in vari modi ci viene suggerito dai messaggi pubblicitari, dai saggi consigli di chi ne ha passate tante, da una morale vagamente ottimista che non sopporta troppo il peso dell'anima umana. 
La tristezza è biologicamente fondamentale. E' l'altra faccia della medaglia dell'amore. Quando c'è tristezza qualcosa nell'amore si sta allontanando. La tristezza è la misura della distanza da qualcosa che amiamo.
Con un mio paziente qualche tempo fa abbiamo fatto questa bella metafora: la tristezza è come un'antenna. Se ce l'hai piazzata sul tetto cogli le trasmissioni tristi, ma è con la stessa antenna che puoi cogliere l'amore, la gioia, la soddisfazione. Togliere l'antenna, come la società degli antidolorifici ci propone (provate a guardare in tv o su internet quante pubblicità ci sono su farmaci che fanno passare il dolore) è un tentativo non solo inutile, perchè tanto le emozioni che fai uscire dalla finestra rientrano dai sotterranei dell'anima, ma anche il modo migliore per allontanarsi da una vita piena di soddisfazione e amore. Non sto facendo un'apologia del dolore in salsa  melodrammatica, per la quale soffrire è bello. No, parlo di come stare a contatto con la tristezza apre le porte a se stessi e all'incontro pieno con l'altro, la strada possibile se si "vuole vivere e cantare". Altrimenti è facciata, altrimenti sono sorrisi finti, altrimenti è illusione di plastica. 

Marco Mazza
Psicologo Psicoterapeuta Gestalt


venerdì 21 febbraio 2014

L'insostenibile la leggerezza della libertà




Se hai intenzione di tentare, fallo fino in fondo.
Ciò potrebbe significare perdere fidanzate, mogli, parenti, impieghi
e forse la tua mente.
Fallo fino in fondo.
Potrebbe significare non mangiare per 3 o 4 giorni.
Potrebbe significare gelare su una panchina del parco.
Potrebbe significare prigione,
Potrebbe significare derisione, scherno, isolamento.
L’isolamento è il regalo, le altre sono una prova della tua resistenza

 C. Bukowski 


Stamattina il buongiorno è arrivato con questa poesia. Mi è piaciuto e ho riflettuto. Ho ripensato ad un film che consiglio a tutti "Waking life" che parla dell'Esistenzialismo. Di questa corrente filosofica mi piace il concetto della Responsabilità. Spesso questo termine è confuso con la colpa. Ma la colpa è un'altra cosa. Il senso di responsabilità ha a che fare con la scelta e le sue conseguenze; il senso di colpa ha che fare con una "legge morale" e il "giudizio". Nella logica della colpa c'è un colpevole e un innocente. Nella responsabilità non c'è innocenza. Tutte le scelte hanno un peso, un prezzo e delle conseguenze.


La responsabilità porta con sé il peso e la leggerezza della libertà. La respons-abilità è l'abilità a rispondere alle ondate della vita. La libertà non sta, secondo questa concezione, nello stare in un posto senza vincoli e senza limiti. La libertà sta nell'intima disponibilità che si conferisce a se stessi di poter scegliere. La libertà è sapere di poter scegliere e farlo. Scegliere di rischiare quello che non ho mai rischiato, scegliere di fare ancora le stesse cose, scegliere di rimanere ancora indeciso e confuso, scegliere di rimandare la scelta, scegliere di far scegliere a qualcun altro, persino scegliere di non scegliere. Ma come dice Sartre "l'unica cosa possibile è non scegliere". Ho un brivido. La scelta mi fa vibrare di eccitazione e paura, può riempire e fare "impazzire". Sostenere la pazzia della scelta è l'unico modo per riempire la propria vita. Sostenere la pazzia dello scegliere non assicura d'esser sempre contenti ma è l'unico modo per vivere una vita piena di senso, è l'unico modo per poter vivere la propria vita.

giovedì 13 febbraio 2014

La società dell'immagine




L'altro giorno a cena in pizzeria ho assistito a questo dialogo tra un ragazzo di 35 anni e uno di 14 anni. Il primo era nell'atteggiamento di chi, avendone passate tante, vuole insegnare qualcosa:

13enne: "io non ci voglio andare al catechismo"
35enne: "perchè?"
13enne: "perchè non credo in Dio"
35enne: "nemmeno io, però, sai, poi magari le persone pensano male di te. Ti fai una cattiva reputazione. Tutti ci vanno e lui non ci va. Sai viviamo in una società cattolica, in cui tutti vanno in chiesa."
13enne: "ma a me non piace. Non ci voglio andare"
35enne: "ma tanto quello che vuoi cambia. che te frega".

Mi ha molto colpito questo dialogo perché il più giovane dei due sembrava avere le idee chiare su ciò che volesse o non volesse. Il 35enne esprime bene, secondo me, l'importanza che si dà all'adattamento alla società, all'adesione a dei modelli, anche quando questi non sono interamente condivisi.
Io credo nelle relazioni umane, ma non credo che per avere dei rapporti sociali la migliore alternativa sia l'adesione a modelli, la partecipazione ad immagini collettive che tranquillizzano ma, secondo me, svuotano. L'immagine che deve avere un 13enne, secondo il 35enne, è quella di essere come gli altri suoi coetanei, magari un po' ribelli ma sempre e comunque inseriti in una cornice sociale  "accettata".
Io credo ad una alternativa più rischiosa per avere rapporti umani ma molto probabilmente più ricca. Io credo che una polarità opposta all'immagine sociale sia il contatto umano. Contatto vuol dire che la pelle di uno tocca la pelle dell'altro. Che due corpi e due si incontrano e si parlano come un io e come un tu. Nel contatto c'è spazio per entrambi. Nell'immagine c'è spazio per un esso e la conseguenza è la messa in scena di copioni già visti.
L'iperadattamento all'immagine porta alla nevrosi, il contatto porta all'intimità.  Il contatto in genere apre a scoperte, forse anche disagio, genera emozioni, scatena il potere creativo del nuovo. Il contatto scotta, l'immagine rassicura. Il contatto apre la possibilità di incontrare se stessi, l'immagine la chiude.


martedì 4 febbraio 2014

Elogio alla Fiducia






Oggi è nata la mia nipotina. Si chiama Beatrice. Io penso che mio fratello e sua moglie abbiano avuto molta fiducia e debbano averla, per forza, ora e nel futuro perché altrimenti non avrebbero avuto il coraggio di mettere al mondo un'altra figlia.
Cos'è la fiducia? é qualcosa che se c'è si vede. Si vede nella possibilità che senti di chiamare un amico, di confidarti con il tuo o la tua partner, di mostrare te disperato in lacrime o terrorizzato come un bambino che trema. La fiducia ha a che fare, per me, un po' con l'abbandonarsi, un po' con lo scommettere e il rischiare e un po', paradossalmente con la possibilità d'essere traditi. Già, se la fiducia in qualcosa o in qualcuno non può essere tradita, probabilmente è una credenza, forse una fede, ma non è fiducia. Fiducia implica il tradimento. Io ho fiducia nella mia compagna, ma contemplo, sebbene non me lo auguri affatto, che lei possa tradirmi andando con un altro o un'altra. Io ho fiducia nei miei amici, ma contemplo che possano smettere di telefonarmi e di volermi bene.
Ma quello che voglio dire è un'altra cosa. Secondo me la fiducia si vede soprattutto negli effetti. Ho notato che se mi fido, le persone cominciano a fidarsi di me e questo crea dei circoli di apertura reciproca, di interesse, di voglia di sapere reciprocamente l'uno dell'altro, di esporsi chiedendo e donando qualcosa di sé (fosse anche un Grazie per la gentilezza, rivolto alla signorina delle poste). Chiaramente c'è chi si approfitta delle aperture per darmi le fregature. L'alternativa sarebbe quella di non fidarmi di nessuno. E' vero, così si riducono al minimo le fregature, ma anche i rapporti, le possibilità di incontro, di scoperta, di vita.
Io ho imparato ad accettare il rischio e scelgo di aprirmi, di rischiare, di parlare con gli sconosciuti, di andare a cena con nobili decaduti, di cambiare strada e perdermi. Prendo un sacco di batoste, è vero ma mi sento pieno, eccitato dalle scoperte, commosso dalle sorprese della vita. Mica dico questo perchè sono un fiducioso di natura. Col cavolo, io per carattere diffidente e paranoico. Ma mi sforzo di non cedere alla paura, semmai d'ascoltarla quando mi suggerisce che qualcosa che non va. In genere mi accorgo dal movimento delle budella che c'è qualche problema: mi suggeriscono che con questa o quella persona è meglio mettere le distanze. Ecco, il punto sta nell'ascoltarsi e non nel farsi guidare dal pre-

giudizio che non ti puoi fidare di nessuno, o anche peggio, ti puoi fidare di tutti. Io scommetto, ma una controllatina al cavallo la do sempre.

Auguro alla piccola Beatrice di avere le condizioni per potersi fidare della vita. So già che ti puoi fidare dei tuoi genitori. Sono bravi abbastanza.

giovedì 30 gennaio 2014

Il governo del fare



Lo chiamano o lo chiamavano, non so più, perché devo ammettere di non essere tanto aggiornato, il governo del fare.
Non mi voglio impicciare di politica, perché come mi ricordano gli amici, la mia compagna, e a volte io a me stesso, faccio lo psicologo e non so fare tutto. Però a proposito "del fare" una cosa la voglio dire anche io, che faccio lo psicologo. La dico semplice: il fare c'ha senso se è connesso col sentire e col pensare, altrimenti è un agire sconclusionato e vuoto che non affronta e non risolve nulla.
Sentire, e mi riferisco a quell'apparato apparentemente irrazionale che è il nostro sistema emotivo, ci permette di entrare in contatto con la realtà e assaporarne il sapore, accoglierne i messaggi intimi. Pensare ci permette di fare elaborazioni delle sensazioni, di connetterle con altre informazioni, di strutturare piani che poi, ma solo poi, si trasformano in azioni.
Non voglio fare lezioni, ma vorrei dire che se si vuol far qualcosa si deve avere il coraggio (o l'interesse) ad ascoltare la paura, lo sconforto, la rabbia delle persone e progettare piani di intervento che ne tengano conto, e dopo sì, si può agire. Questo è quello che faccio in genere in terapia nel mio studio con i pazienti, aiutarli a trasformare il loro vivere in qualcosa che è continuamente connesso con le proprie emozioni, con i propri desideri e i propri progetti e il proprio...fare...
E' troppo facile dire che lo stato dovrebbe andare in terapia...i politici, invece, quelli li invierei dallo psichiatra.

martedì 28 gennaio 2014

Psicologia SoStenibile: psicologia per tutti o psicologia svenduta?

Io ed alcuni amici ci siamo messi in testa che la Psicoterapia non può essere solo per chi può permettersi di pagare dai 50 ai 150 euro a seduta. Ci siamo messi in testa che la Psicoterapia può essere sostenibile.
Ma che vuol dire sostenibile? Se si fa un giro su internet, le definizioni sono numerose e non sempre condivise. Io considero sostenibile qualsiasi processo o attività che non sprechi le risorse, non le butti via e non le rovini. Considero sostenibile un'azione che si ponga la prospettiva del lungo tempo e del rispetto dell'ambiente e del contesto in cui è collocata. Considero sostenibile un'iniziativa che agisca secondo le mie tre Dee laiche: Etica, Estetica e Logica. La dea Etica guida l'azione secondo il rispetto di se stessi, degli altri con cui entro in relazione e del contesto in cui avviene l'azione. La Dea Estetica mi sussurra alle orecchie suggerimenti per fare del mio fare qualcosa di bello e sensato. La dea Logica, mi aiuta a non perdere la rotta del legame con la realtà. Questo dunque il mio Pantheon SoStenibile che mi fa scegliere di agire rispettando me stesso e il mio desiderio di fare attività professionale che siano contemporaneamente basate sul desiderio di fare profitto e sul desiderio di agire venendo in contro a chi ha difficoltà economiche e che ha bisogno di fare psicoterapia.
Già, ma concretamente che vuol dire. Vuol dire che scelgo di avere nel mio studio un numero di pazienti che vedo a tariffe minori rispetto a quella mia standard. A che tariffa e perché sono un certo numero e non tutti? Cominciamo con la seconda domanda. Non tutti perché non tutti i miei pazienti hanno difficoltà economiche, e non tutti perché altrimenti vedrei insoddisfatto il mio desiderio di fare profitto e quindi la scelta diventerebbe insostenibile per me nel tempo. E la tariffa qual è? la tariffa io la negozio con i miei pazienti in genere facendo questa domanda: quanto sei disposto e puoi pagare per il tuo benessere. La domanda non è immune dal rischio di sottovalutazione, di svalutazione o di possibilità di essere fregati. Me ne assumo il rischio ogni volta. Nella mia esperienza ho scoperto che i clienti ne restano sorpresi e si responsabilizzano e propongono quello che credo sia il massimo per loro, quello che è, appunto, sostenibile per loro.
Credo che questo possa estendere la psicoterapia a tutti e non svenderla. Credo che la dignità professionale non stia solamente nel quanto ci si faccia pagare, ma nel modo con cui si opera e lavora.
Io personalmente non mi sento svenduto.

se vuoi sapere qualcosa dell'associazione con cui condivido queste idee clicca qui www.psicologiasostenibile.info